Edizione 2015

METALITALIA.COM FESTIVAL 2015
30/05/2015 – Live Music Club – Trezzo sull’Adda (MI)

metalitalia festival 2015 - locandina definitiva

Running order:

Apertura porte: 14.30

15.35 – ULVEDHARR
16.20 – SINISTER
17.25 – ULTRA-VIOLENCE
18.10 – DARK LUNACY
19.15 – ONSLAUGHT
20.20 – FLESHGOD APOCALYPSE
21.30 – EXODUS
23.30 – TESTAMENT


Crediti meet&greet e report in diretta

Coordinamento e organizzazione meet&greet: Alessandro Corno, Luca Corbetta e Luca Pessina
Coordinamento report in diretta: Marco Gallarati
Fotografie meet&greet: Francesco Castaldo e David Scatigna
Fotografie report in diretta: Francesco Castaldo
Report in diretta a cura di: Lorenzo ‘Satana’ Ottolenghi (Ulvedharr, Onslaught, Fleshgod Apocalypse), Giovanni Mascherpa (Ultra-Violence, Dark Lunacy, Exodus) e Marco Gallarati (Sinister, Testament)


Introduzione
Buongiorno ragazzi e ragazze, benvenuti al Metalitalia.com Festival 2015!
Quest’anno abbiamo decisamente fatto le cose in grande ed infatti, fin dai primissimi momenti dopo l’apertura porte, avvenuta puntuale alle 14.30, la risposta di pubblico è ottima, con le prime file alle transenne già occupate e con un’incredibile coda presso l’area esterna del Live Music Club di Trezzo, dove a brevissimo si terrà l’agognato meet&greet con i Testament e, a seguire, le altre band.
La quarta edizione del nostro evento si preannuncia come sicuramente quella di miglior successo, almeno sotto il profilo dell’afflusso di gente. Nomi come Testament, Exodus ed Onslaught, veri e propri capisaldi del thrash metal, riescono a richiamare frotte di spettatori davvero importanti, oltre chiaramente a regalare, si spera, performance all’altezza della loro nomea. Oltre a loro, in un bill piuttosto compatto, solo otto band, ma redditizio, avremo poi il piacere di gustarci, in ordine sparso: l’icona death metal olandese Sinister; i nostri Fleshgod Apocalypse, band ormai certezza del panorama metallico italiano; gli storici Dark Lunacy, oggi all’opera con un prestigioso quartetto d’archi, proprio come due anni fa fecero i Sadist sempre su questo palco; Ultra-Violence e Ulvedharr, infine, a rimpinzare l’ondata di band nostrane emergenti, rispettivamente nei settori thrash metal e folk-death metal.
Nel momento in cui scriviamo, la folla in coda per il meet&greet coi Testament sta lentamente scemando verso i propri idoli e, di seguito, tornando soddisfatta chi nel locale, chi stazionando nell’area esterna.
Quindi, lasciando ora spazio alla musica suonata con gli opener Ulvedharr, non ci resta che augurarvi buonissima giornata, buon metal e buon Metalitalia.com Festival 2015. Non vi diciamo di essere numerosi, perchè già lo siete!
(Marco Gallarati)

 

ULVEDHARR – 15.35
Provenienza: Bergamo, Italia
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Agli Ulvedharr tocca l’onere e l’onore di aprire il festival: l’opening-act non ha mai un compito facile, perchè tutto è ancora indefinito. Mentre la lunga fila al meet&greet coi Testament cresce, Ark e soci iniziano a suonare ed il pubblico -dapprima sparuto- accorre subito. Gli Ulvedharr sono una band che dà il meglio di sè nella dimenisione live e così -neanche nel tempo di una canzone- parte il primo, timido moshpit. Si prosegue senza sosta, poche parole e tanta musica per concentrare al massimo il numero di pezzi, pescando da materiale vecchio e nuovo. A metà concerto, quello che era solo un abbozzo diventa un “vero” moshpit, scatenando un piccolo inferno sotto il palco, inferno alimentato dal micidiale viking death metal della band bergamasca, che trae energia ed ispirazione a mano a mano che la partecipazione del pubblico cresce. Difficile trovare una pecca alla performance degli Ulvedharr (a parte la mancanza in setlist di “Onward To Valhalla”): il gruppo picchia forte, colpisce gli astanti, incita e coinvolge. C’è tempo pure per un inedito (“Legion”) prima della chiusura. Alziamo il calice in onore di Thor e ringraziamo per l’inizio devastante. Ed ora spazio ai Sinister!
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

 

SINISTER – 16.20
Provenienza: Schiedam, Olanda
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Inizia un vero e proprio massacro festivaliero con la salita dei Sinister sul palco. Il ritardo di dieci minuti viene probabilmente pagato con il taglio finale di un pezzo, ma la quarantina di minuti sciorinata dai ragazzi oranje non fa rimpiangere assolutamente nulla. Aad Kloosterwaard e soci spazzano via ogni dubbio sul loro stato di forma, presentando il loro death metal old-school con una vigoria ed una forza belluine. L’audience reagisce bene e fin dai primi minuti partono sacche di pogo sporadiche ma violentissime, assieme ad apprezzati cori ‘Sinister, Sinister!’. Il growl catacombale di Kloosterwaard non perdona e, pur risultando piuttosto monotono e uniforme, ben si assesta sopra il riffing assassino dei suoi compari, splendidamente ficcante (il riffing) e con quel tocco di melodia che, all’interno di un contesto brutale, non sfigura quasi mai. Una prestazione a livello di festival estivi, praticamente, con una setlist che ha cercato di comprendere più dischi possibile ed è risultata piacevole e dolcemente stuprante per tutto il minutaggio. I Sinister ci lasciano con il sorriso sulle labbra, dunque, ed un concerto quasi impeccabile, con l’unico mezzo intoppo valutabile nel suono di batteria troppo in stile ‘fustino Dixan’. Palla ora agli Ultra-Violence, vediamo se sapranno essere più (ultra)violenti dei deathster appena scesi dal palco.
(Marco Gallarati)

 

ULTRA-VIOLENCE – 17.25
Provenienza: Torino, Italia
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E’ un vero piacere constatare che, dietro ai giganti Exodus e Testament prossimi ad esibirsi sullo stesso palco, si muovono ragazzi di carattere e di talento come i nostrani Ultra-Violence. Sanno di avere un’occasione d’oro, davanti a un pubblico già degno degli headliner – siamo solo alla terza band in scaletta, cose praticamente mai viste su suolo italiano – e se la giocano a viso aperto e senza complessi. Pazienza se durante il primo pezzo la chitarra di Loris Castiglia, anche cantante, smette di suonare e la si deve cambiare; pazienza pure per suoni discreti ma nient’affatto clamorosi; pazienza anche per qualche piccola sbavatura tecnica, quando ci sono cuore e furore in abbondanza a compensare piccole sviste qua e là. Basta l’attacco Metallica-style del primo pezzo e parte la baraonda, oltre a una selva di incitamenti che non cesseranno per tutto il concerto. La lunghezza dei pezzi non va a discapito di grinta da belve assassine e perizia strumentale davvero eccellente per la giovane età media dei membri del quartetto. Con “Why So Serious” si affondano addirittura le mani nel crossover/thrash di gente come Suicidal Tendencies e Mordred, tra riff rock’n’roll e un basso che più anthraxiano non si potrebbe. La temperatura interna è da arrosto, parte il primo circle-pit e dobbiamo arretrare per non essere travolti. I ragazzi ci sanno fare anche come intrattenitori e mentre Andrea Vacchiotti delizia con assoli classic metal goduriosissimi, la band avanza selvaggia ma precisa tra stacchi prepotenti, parti mosh in odore di hardcore con gli attributi, accelerazioni spezza-tibie. Quando arriva l’attacco alla Machine Head di “Restless Paradise” un boato si alza nel Live e anche i thrasher più smaliziati si sono ormai fatti conquistare dal gruppo torinese. Finisce tra meritate ovazioni una mezz’ora di intenso thrash metal che più classico non si potrebbe. Il Metalitalia.com Festival 2015 prosegue alla grande.
(Giovanni Mascherpa)

 

DARK LUNACY – 18.10
Provenienza: Parma, Italia
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Una giornata memorabile stava per tramutarsi in tragedia. Solo musicale, si intende, per carità. Però, quando metti in piedi una data unica e, forse, irripetibile come questa, con un vero quartetto d’archi a integrare la performance della band, non ti auguri di certo che le basi scompaiano all’improvviso proprio quando stai per attaccare col primo pezzo. Come non ti dispongono favorevolmente suoni sgraziati e coi livelli tutti fuori posto nei primi minuti, quelli che accompagnano un primo brano davvero difficile da apprezzare. In una sala già molto svuotata rispetto agli Ultra-Violence (l’abbiamo capito, la parte preoponderante del pubblico è formata da thrasher duri e puri), questo potrebbe essere il colpo di grazia. Invece le cose migliorano, e già con la seconda canzone il quartetto di origine parmense può avere campo libero per fare quello che gli riesce meglio, ovvero un death metal drammatico, gotico e immaginifico come pochi altri. Mike può scatenare il suo growl sanguigno, mentre l’apporto degli archi manda brividi infiniti a un’audience che inizia a entrare in sintonia con questo scenario invernale, intristito ma vitale, che rimanda ai giorni terribili della guerra nella lontana terra russa. Tutto quell’insieme di emozioni ondivaghe, fra speranza e rassegnazione, istinto di sopravvivenza e voglia di lasciarsi andare, lotta e arrendevolezza, contenute in un album come “The Diarist”, fuoriesce dalle casse in maniera toccante, irresistibile quanto il groviglio di opulenza death metal ora sì, pienamente comprensibile ed appagante. Nelle loro divise (vere) dell’esercito russo di un tempo, i Nostri crescono di splendore, passando prima dalla death metal-oriented “Sacred War” – una signora legnata – poi da un’accoppiata che lascia quasi senza fiato: “Motherland” e “Stalingrad”. Anche la porzione di pubblico meno partecipe si fa finalmente scuotere da questo misto di rabbia, doglianze, soavità e coltellate: sono le canzoni che meglio alternano violini e chitarra in un tourbillon emotivo stupendo e difficile da ritrovare altrove. Mancano pochi minuti alla fine, e si sente il bisogno di quell’hit assoluta che ha marchiato, fin dagli esordi, l’esistenza dei Dark Lunacy. E’ il tempo di “Dolls”, e arriva addirittura un po’ di pogo nelle prime file, mentre si alzano cori da ogni dove per sottolinare il celeberrimo giro di violini posto in apertura. Una melodia che ritorna e apre sempre nuovi scenari, all’interno di una composizione fatta a matrioska. Pensi sia finita, invece ti lascia accedere a nuovi piccoli scenari di poesia. Alla fine, come a teatro, gruppo e violinisti si abbracciano e si inchinano. Era iniziata male, è finita in trionfo.
(Giovanni Mascherpa)

 

ONSLAUGHT – 19.15
Provenienza: Bristol, Inghilterra, UK
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Basterebbe citare gli stessi Onslaught per descrivere il loro show: il suono della violenza. Violenza musicale che si esprime nel furioso thrash metal dalle radici hardcore espresso dagli inglesi; violenza verbale di chi grida “spitting blood in the face of god” e violenza del pubblico che -aizzato dalla band- scatena continuamente moshpit e circle-pit infernali. I thrasher di Bristol attaccano con “Let There Be Death”, facendoci subito capire cosa ci attende per la prossima ora. Tra vecchio e nuovo, non c’e’ un momento di respiro in una setlist massacrante, al limite del sopportabile, tra classici del calibro di “Fight With The Beast”, “Metal Forces” e “Power From Hell”. Gli Onslaught sono una band leggendaria e vederli dal vivo fa ben capire il motivo dell’amore tributato da numerosissimi fan: il thrash satanico e primordiale degli inglesi non dà scampo e colpisce in faccia con la violenza di un pugno di metallo. E’ particolarmente difficile rendere a parole l’energia musicale sprigionata dal gruppo e -forse- l’unica vera misura, l’unico valido metro di giudizio è il sudore lasciato dagli astanti sul suolo del Live. Tecnicamente possiamo dire che i suoni sono stati (finalmente) all’altezza dell’evento e che qualche piccola sbavatura ritmica non ha certo tolto nulla ad un concerto basato sul feeling e sulla simbiosi creata tra gli Onslaught e gli astanti. Poco altro da aggiungere al piacere ed al privilegio di poter assistere ad un pezzo di storia del thrash, che non sarà -forse- tra i più famosi ma che di certo è tra i più seminali. Tra poco si attraversa l’oceano e non sarà così scontato per dei mostri sacri come Exodus e Testament trasmettere la stessa potenza degli Onslaught. Ma prima Fleshgod Apocalypse.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

 

FLESHGOD APOCALYPSE – 20.20
Provenienza: Roma, Perugia, Italia
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I Fleshgod Apocalypse sono uno dei motivi per cui la scena metal italiana può camminare a testa alta. Possono piacere o non piacere (e se siete seguaci della filosofia “less is more”, di certo non vi piaceranno), ma la band perugina ha un respiro internazionale davvero notevole. E quando il gruppo è sul palco, è evidente come sia abituato a suonare davanti a platee “importanti”. La presenza scenica è impressionante, impossibile non andare con la mente ai Dimmu Borgir, ma i nostri connazionali hanno un approccio totalmente diverso, molto più carico e -a tratti- barocco; ma proprio questo è il punto di forza dei Fleshgod: non sono una band che tenta di imitare qualcosa di facile, ma persone con un’identità musicale ben definita e molto italiana (la lettura dell’Inferno dantesco, col celebre “fatti non foste a viver come bruti”, ne è prova e suggello). I tocchi di classe sul palco sono molti e notevoli: dal pianoforte con il musicista che volge le spalle al pubblico alla cantante lirica che resta a tratti in disparte e a tratti si porta al centro della scena. E’ chiaro che nulla è lasciato al caso e che l’intero show è ben studiato, ma non per questo la band risulta stucchevole o poco spontanea, anzi; e ben se ne accorge il pubblico, che partecipa e risponde. Ovviamente la musica dei Fleshgod Apocalypse ha un tiro totalmente diverso da quello delle band che li hanno preceduti e -a differenza degli Onslaught- la musica dei perugini è forse leggermente penalizzata dalla dimensione live. I suoni, comunque, dopo un inizio un po’ tentennnante, si fanno puliti e nitidi (forse un po’ troppo alto il trigger sulla doppia cassa, ma parliamo di sottigliezze) e ci regalano uno show di alta caratura. A margine possiamo dire che ci auguriamo che il successo di questo gruppo sia, per le grosse label, una conferma che l’Italia è in grado di regalare band di alto livello. Un plauso, quindi, ai Fleshgod, sopratutto pensando a quanta strada hanno fatto in così poco tempo. Ed ora? E’ il momento degli Exodus, non crediamo serva aggiungere altro.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

 

EXODUS – 21.30
Provenienza: San Francisco, California, USA
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Un giorno chi c’è stato lo potrà raccontare con orgoglio. Tra un mese, tra un anno, un decennio. Chissà. Narrerà, agli amici che erano con lui (o con lei) di quei momenti, e gli farà scendere una lacrimuccia di nostalgia. Oppure, parlando con qualcuno che non era presente, proverà a farlo crepare d’invidia per aver mancato un evento di tale portata. Il concerto degli Exodus si è dipanato in condizioni perfette, quegli istanti dove tutti i pianeti si allineano, ogni cosa è al suo posto, ogni tessera del mosaico si incastra alla perfezione con l’altra. Suoni perfetti, calibrati in maniera fin miracolosa, alla luce di qualche piccola noia vissuta con le esibizioni precedenti; un pubblico che definire caldo e partecipe è un eufemismo; una band in palla oltre ogni ragionevole previsione. Il Live è stracolmo quando un’intro tamarrissima, da guerriglia urbana nel ghetto, annuncia l’arrivo dei cinque di San Francisco. Tom Hunting in piedi sulla batteria arringa il pubblico, così folto da potersi quasi spalmare su più livelli e toccare il soffitto. Parte “Black 13”, opener dell’ultimo, fortunatissimo, “Blood In Blood Out”, ed è chiaro che si andrà a godere oltre ogni immaginazione. Souza è in formissima, sogghigna sardonico mentre cammina sul palco sfidando gli astanti a reggerne il carisma: mission impossible. Di voce sta benissimo e anche chi non è esattamente un suo fan come chi scrive può solo inchinarsi e scapocciare indemoniato di fronte a un’ugola così sprezzante e velenosa. La metrica di Souza è da orgasmo e fa sfracelli non solo sui “suoi” brani, ma anche su un estratto dell’epoca-Dukes, la stupenda e un po’ strana – per il coro pulito sul refrain – “Children Of A Worthless God”. Se non bastasse quanto di grandioso stia già accadendo, si vola in orbita quando entrano in campo le pietre miliari del disco da cui tutto ebbe inizio: “Bonded By Blood”. Tocca a “Piranha” gettare l’amo a pesci famelici come i temibili carnivori tropicali. La coppia d’asce, pur orfana di Gary Holt (preso in giro da Souza e dall’intera band con un accenno a “Raining Blood”), fa sfracelli, dando lezioni di stile, astuzia e feeling con feroce abnegazione. Si rimpalla continuamente tra l’esordio e “Tempo Of The Damned”, da cui arrivano le attesissime – che boati quando vengono annunciate! – “Blacklist” e “War Is My Sheperd”, mentre “The Toxic Waltz” tiene alta la bandiera di “Fabulous Disaster”. Su “Metal Command” succede il finimondo, è un anthem troppo ghiotto per non rovinarsi quel poco di voce rimasta intonando il refrain a tempo con Souza. “Another Lesson In Violence” e “Bonded By Blood” staccano gli ultimi pezzi di cartilagine dai nostri colli, si boccheggia e si suda copiosamente, ma sarebbe un delitto lasciare la posizione. Souza fa il brillante e il gigione, assicurando che quella milanese è l’audience migliore che esista: facciamo finta di credergli, stasera gli potremmo concedere qualsiasi cosa. Una tremenda, bellissima e definitiva “Strike Of The Beast” chiude un’esibizione di profilo altissimo, da tramandare ai posteri per la partecipazione corale di un pubblico oggi davvero meraviglioso, degno di essere paragonato a quello dei grandi festival europei a cui noi italiani, spesso, guardiamo con infinita invidia. Non in questa occasione. E se non c’eravate, fatevi raccontare da chi era presente cosa vi siete persi…
(Giovanni Mascherpa)

 

TESTAMENT – 23.30
Provenienza: Oakland, California, USA
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Dopo il crescendo di prestazioni odierne, con la sublimazione apocalittica narrata per gli Exodus, è dura per i Testament riuscire a sconfiggere i loro connazionali. La band parte in sordina, o meglio…partirebbe in sordina, se un soundcheck infinito – quasi cinquanta minuti, con problemi alle luci apparentemente irrisolvibili – non ritardasse di parecchio l’inizio della performance. All’ennesima bordata di fischi indirizzati verso il palco, finalmente calano le luci di botto e parte l’intro, facendo così rombare le prime urla della folla. La line-up impegnata quest’oggi è di quelle sensazionali, seconda probabilmente – ma va a gusti, attenzione – solo a quella che registrò il magistrale “The Gathering”: Skolnick rientrato più che stabilmente alla base e Gene ‘Atomic Clock’ Hoglan dietro l’immane drumkit non fanno certo rimpiangere calibri grossi della stazza di James Murphy e Dave Lombardo; Chuck Billy, Eric Peterson e Steve Di Giorgio – avete detto il nulla! – completano il quintetto delle meraviglie. Si decolla alla grandissima, dunque, con “Over The Wall”, subito un salto nel passato profondo della band che comincia abbastanza bene, ma con ancora i suoni da calibrare. L’ora e mezza a disposizione dei Nostri verrà leggermente ridotta di qualche minuto, senza per questo inficiare troppo la riuscita del concerto, se non per quanto riguarda la parte finale della setlist, quando all’altezza di “D.N.R. (Do Not Resuscitate)” Hoglan ha accelerato vorticosamente le metriche già telluriche del brano, costringendo Chuck Billy a prendere fiato o addirittura a interrompere parte delle strofe, sopraffatto dalla ritmica incessante dei suoi quattro pard. Comunque sia, ad esclusione di questo lieve deficit, qualche altra sbavatura tecnica e le uscite libere, apprezzatissime, del basso di Steve Di Giorgio, i Testament hanno sciorinato un’esibizione all’altezza di un pubblico ormai davvero straripante e contenuto con difficoltà dalle mura della fortezza Live Music Club. A qualche richiamo iniziale agli ultimi album della formazione USA, è seguito poi un deciso revival del passato, con praticamente l’esecuzione di tutti i brani di “The New Order”, più i classiconi “Souls Of Black”, “Practice What You Preach” e “First Strike Is Deadly”. Finalone con le gran pogate della già citata “D.N.R. (Do Not Resuscitate)” e la anthemica, coreggiante “3 Days In Darkness”, prima che “Disciples Of The Watch” distruggesse qualsiasi velleitaria resistenza di un’audience supponiamo soddisfatta, mezza claudicante e tutto sommato felice; felice per aver vissuto una manifestazione che, al quarto anno d’esistenza, raggiunge infine l’ambito traguardo del tutto esaurito, un punto d’arrivo che ci soddisfa tantissimo e ci permette di pensare con tanta serenità ed entusiasmo al prossimo anno. Per ora lasciateci però riposare un po’ sugli allori e ringraziare tutte le persone coinvolte nella realizzazione del Metalitalia.com Festival 2015, le band partecipanti e soprattutto VOI che siete intervenuti in maniera massiccia. Davvero grazie e alla prossima edizione!
(Marco Gallarati)